IL GABBIANO di Sándor Márai

Autore: Sándor Márai

Traduttore: Laura Sgarioto

Editore: Adelphi

Collana: Biblioteca Adelphi

Anno edizione: 2011

In commercio dal: 1 giugno 2011

Pagine: 163 p., Brossura

EAN: 9788845925955

Da tempo quest’autore mi strizzava l’occhio in libreria, in particolare “Le braci” stuzzicano la mia curiosità, sarà per il titolo o per la meravigliosa copertina che riproduce un quadro di Klimt, non so, ma più volte mi son detta che “quel libro sarebbe stato mio!”. Poi, come sempre capita a noi lettori compulsivi, vaghiamo per la libreria, ci carichiamo le braccia di altri titoli e, presi dai sensi di colpa, tralasciamo un’enorme quantità di altre letture che segretamente promettiamo di riconsiderare in seguito.

Ma se un libro o un autore sono destinati a te, prima o poi torneranno!

Ed è questo il mio caso, parlando di libri con un amico Sándor Márai ha così prepotentemente preso piede che mi sono ritrovata tra le mani due dei suoi romanzi, prestati da questo suo estimatore.

Con grande curiosità mi sono approcciata alla lettura de “Il gabbiano”, romanzo che per gran parte ho divorato in uno di quei pomeriggi in cui avevo deciso che le ansie, le frustrazioni e le delusioni della vita reale dovevano essere placate dalla lettura di un buon libro. Mi sono, quindi, immersa nell’opera, sbarrando la porta al mondo, sanando in parte le mie ferite…

“Riavvitò con estrema cura il cappuccio di ebanite della stilografica – con un gesto lento e cauto da chirurgo che impugna il suo affilato strumento o da chimico che soppesa un’ampolla in cui sono racchiuse vita e morte: medicamento o veleno capace di sterminare interi villaggi.”

Con questo incipit Márai ci presenta il personaggio principale del romanzo, un quarantacinquenne funzionario del Ministero a Budapest, che sente in questo frangente il peso dell’età che avanza, sopraffatto da quel piccolo gesto che ha appena dovuto fare, una semplice firma che però cambierà l’esistenza di un’intera popolazione…

“Le sue dita, esercitate sulla tastiera del pianoforte, nella scrittura, nella scherma e nel colpire la palla, ora giacevano – ossute lunghe e bianche – quasi spossate sulla scrivania, neanche dovessero riprendersi dopo un duello, una dura e virile competizione. Così riposano le mani degli artisti dopo aver vergato l’ultima parola, steso l’ultima pennellata o percosso la nota finale sul pianoforte, consapevoli che in quell’istante si è compiuto qualcosa di unico, qualcosa che non si ripeterà mai più.”

L’entrata in guerra è imminente e lui è uno dei pochi che conosce la verità, che sa che l’indomani la vita di tutti loro sarà definitivamente stravolta.

Alla sua porta bussa una donna, una finlandese in cerca di un permesso di soggiorno; eterea e incantevole, Aino Laine, unica onda, è esattamente il contrario del significato del suo nome. Non è unica, è la copia perfetta della donna amata dal protagonista, morta suicida anni prima, non solo nell’aspetto fisico, ma anche in alcuni atteggiamenti e modi di fare e soprattutto una somiglianza anche nell’anima delle due donne.

Destino crudele per il protagonista!!!

“Si accarezzò la fronte con gesto nervoso, come sempre quando si sforzava di dissimulare, per innato riserbo, qualcosa di traboccante, doloroso, disumano che erompeva dal profondo, dai cunicoli fangosi e saturi di grisou dei ricordi e dei sentimenti.”

Il ritmo si fa sempre più lento, il tempo si dilata e Sándor Márai dà ampio spazio all’introspezione, costruendo una trama singolare e straordinaria.

E dalle tenebre nebbiose della memoria riappare il ricordo di cosa sia l’Amore, l’ossimorico connubio di diletto e sofferenza. Bellissimi sono i farraginosi pensieri del protagonista, un fiume in piena che segue il flusso delle sue riflessioni, talvolta intricate e difficili da seguire, in cui però facilmente il lettore può immedesimarsi.

E quindi dà spazio a quello che potremmo definire l’amore “malato”…

“Una persona può annientarne un’altra rifiutandosi di lasciarla andare, ma senza concederle nulla; legandola a sé, ma al contempo impedendole di avvicinarsi troppo, evitando di stringere con lei un vero legame. Chi viene separato e isolato in tal modo finisce per soccombere. Perché resta solo, ma non è neanche del tutto solo, vive in una specie di vincolo, ma chi lo tiene prigioniero non se ne prende cura…”

… al dolore che resta dopo…

“Il dolore è passato. La vita l’ha trasformato in qualcos’altro; dopo averlo provato, dopo aver singhiozzato, lo si nasconde agli occhi del mondo, imbalsamato come una mummia da custodire nel padiglione funerario dei ricordi. Passa anche il dolore provocato dall’amore, non credere. Rimane il lutto, una specie di cerimonia ufficiale della memoria. […] Il dolore un giorno si trasforma, la vanità e il risentimento insiti nella mancanza si prosciugano al fuoco purgatoriale della sofferenza, e rimane il ricordo, che può essere maneggiato, addomesticato, riposto da qualche parte. È quel che accade a ogni idea e passione.”

Capita spesso, dopo il dolore, di voler sprangare quelle porte, di non voler far entrare mai più neppure uno spiraglio di luce, il buio diventa la nostra esistenza e cerchiamo di non farci scalfire da nulla. La nostra vita diventa un turbine di atti ponderati e decisi, cadenzati, che ci trascinano in obblighi quotidiani e monotoni e chiudiamo occhi e orecchie, non vogliamo sentire e vedere il richiamo di forze oscure che ci trascinano verso la luce. E poi inaspettatamente accade:

“La corrente del bacio comincia a irradiarsi nel loro corpo e nei loro nervi. Che bacio era?, pensa l’uomo. Ci sono baci che legano, pensa, e baci che subito chiariscono, spiegano, separano. Nel momento che segue il primo bacio, coloro che hanno compiuto quest’atto – compiuto?…un vero bacio, semmai accade – sanno già se quel contatto ha creato un legame, oppure ha stabilito una divisione? E i baci facili che aleggiano nel ripostiglio della memoria, come i festoni colorati di un ballo… forse anche questo era uno di quei baci facili che talvolta l’attimo sparge su di noi come una mano divina all’alba sparge coriandoli sulle coppie che ballano il valzer. Non sa rispondere quindi tace.”

E remi ancora contro corrente, valutando, pensando, ponderando, rifiutando, chiedendoti:

“Amore… Non ricordi? Da tempo c’era tranquillità in te e intorno a te. Avevi ormai perso l’abitudine di guardare di tanto in tanto l’orologio senza motivo, di drizzare le orecchie quando squillava il telefono, di voltare di scatto la testa se qualcuno abbassava la maniglia della porta, di frugare in mezzo alla posta del mattino con smaniosa curiosità alla ricerca della grafia familiare sulla busta… tutto questo era ormai passato. E ora? Non hai paura, non ti vergogni ad accogliere nuovamente nella tua vita questa torbida e umiliante inquietudine?”

[…]

“Questa cosa folle e crudele è tornata di nuovo nella mia vita. È giunta dalla morte superando gli ostacoli della vita, rinnovata e banale, un numero da illusionista di cui non oso scoprire dove stia il trucco…”

E prepotente ritorna la poesia recitata dall’amata scomparsa

” Dimmi, cuore mio, è questo l’amore? ”

insieme a nuovi dubbi ed imperscrutabili perplessità.

Ma, attenzione, “Il gabbiano” non è solo questo!

È un thriller psicologico, con tratti di dissimulato romanticismo, che analizza la perdita d’identità, il desiderio, il riscatto di amori respinti, tratti di tipicità umana, dove i personaggi possiedono una caratterizzazione evanescente, come tutto il resto della storia. Mai significativamente delineati, seppur del protagonista è scandagliato ogni più intimo pensiero ed ogni gesto.

Più storie che s’intrecciano così bene tra loro da crearne una sola trama, intricata, che divaga a tal punto da confondere il lettore che ne rimane profondamente affascinato e colpito. Un romanzo senza soluzioni, che col suo meraviglioso linguaggio articolato e filosofico attrae e respinge. Una lettura non semplice, ma che cattura profondamente gli animi di chi la legge.

“Ma quest’attimo è ancora mio, e capita solo una volta nell’esistenza. Adesso non sono né giovane né vecchio, non c’è né passato, né obblighi, non c’è né conoscenza, né estraneità: adesso c’è soltanto l’attimo.”

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