TERRA, TERRA!… di Sándor Márai

Autore: Sándor Márai

Traduttore: Katinka Juhász

Editore: Adelphi

Collana: Biblioteca Adelphi

Anno edizione: 2005

In commercio dal: 8 giugno 2005

Pagine: 342 p., Brossura

EAN: 9788845919800

Con la lettura de “Il gabbiano” ho avuto un colpo di fulmine per quest’autore che più volte mi aveva incuriosito e grazie ad un amico, grande estimatore di Sándor Márai, ho letto questo libro, a lui tanto caro.

Devo dire che, forse, ho preferito il primo, ma devo anche sottolineare che il mio stato d’animo attuale è sostanzialmente cambiato da allora e, quindi, probabilmente il mio spirito ostile ha fatto sì che non riuscissi ad amare questo romanzo quanto “Il gabbiano” o sarà stato, invece, il tema predominante ad intristirmi e far sì che non riuscissi a goderne a pieno.

Ancora una volta, però, voglio sottolineare che trovo lo stile e il ritmo della scrittura dell’autore meravigliosi, con un linguaggio filosofico e allo stesso tempo intimo che, pur non essendo semplice, cattura l’attenzione del lettore tanto da riuscire a immergersi completamente nella lettura e a sprangare la porta alle difficoltà e le asperità della vita reale.

“Tra una stanza e l’altra le porte erano aperte. Ora, se ripenso a quell’immagine rischiarata dalle tremule fiamme quasi arcane delle candele, ogni cosa mi appare come se noi, i discendenti della borghesia di Buda e della provincia, avessimo voluto, ancora una volta, l’ultima, interpretare a nostro uso la vita dei padri. Quella notte tutto quanto aveva formato le quinte e gli arredi di scena dei tempi passati prese vita.”

[…]

 “La stanza era piacevolmente tiepida. Lo sguardo andava distratto agli scaffali pieni di libri: li avevo raccolti qua e là nel mondo. C’erano il Marco Aurelio comprato su una bancarella dei lungosenna, le Conversazioni di Eckermann, una vecchia edizione ungherese della Bibbia e… Erano seimila volumi. Dalle pareti, i ritratti di mio padre, di mio nonno e di altri parenti defunti mi guardavano.”

Romanzo di carattere autobiografico, descrive la fine della II Guerra Mondiale e il passaggio dall’occupazione nazista a quella comunista in Ungheria, tra il 1945 e il 1947.

Racconta le atrocità della guerra descrivendocele come se fossero una sorta di fermo-immagine  di una pellicola rovinata dal tempo, fotogrammi di distruzione e miseria a cui ha assistito, avvolti dalla nebbia dei ricordi.

“A mano a mano che ci avvicinavamo al nostro quartiere di Buda lo spettacolo mutava: la zona a noi ben nota era un cumulo di macerie difficilmente riconoscibile. Come se stessimo procedendo in mezzo agli scavi… Così vagammo nelle orme dei russi, cercando di individuare tra le rovine le vecchie case. La strada era libera. Ma non sapevamo ancora dove portava.”

[…]

 “Mi misi in tasca la foto e mi guardai intorno per vedere cosa avrei potuto portare via come ricordo. Superando una barricata penetrai in una stanza dove avevo tenuto i miei libri ben allineati sugli scaffali. Avrei voluto trovare il Marco Aurelio con testo a fronte, le Conversazioni di Eckermann e la vecchia edizione ungherese della Bibbia. Ma era difficile orientarsi.” 

Il suo punto di vista è quello di uno scrittore di origini borghesi che, a differenza della maggior parte dei suoi connazionali, non vede nell’avanzata dei soldati russi che giungono a liberarli la panacea dei loro mali;

“Un popolo che vive da molto tempo in condizione di schiavitù è come se sapesse che il proprio destino non cambierà mai, neanche in mutati frangenti: i vecchi padroni se ne stanno andando, ne arrivano di nuovi e lui rimane schiavo come prima.”

In lui predomina, invece, un presentimento di sventura. Quei soldati non porteranno libertà al suo popolo, ma ancora una volta una sottomissione ad uno straniero che stravolgerà l’identità storica del suo popolo.

Inizialmente comprensivi, i russi, pian piano prenderanno sempre più potere e da “amici” diventeranno ostili padroni della loro nazione.

“La libertà non è uno stato permanente, ma una continua tensione verso qualcosa, e il lavaggio del cervello annienta proprio questa coscienza: chi viene ‘trattato’ un giorno si accorge di non volere più essere libero.”

Sándor Márai inizialmente resiste in un Paese, dissanguato, atterrito, sul quale il processo di sovietizzazione stende una ragnatela che si fa «ogni giorno più fitta e appiccicosa», non vuole fuggire in un altro luogo, vuole scrivere nella lingua materna. Nel settembre del 1948, però, quando gli viene tolta la libertà prende una decisione, quella di allontanarsi…

“Ero tornato a casa dall’Occidente perché volevo scrivere liberamente in ungherese: mi accorsi ben presto che non era più possibile. Decisi di tacere e aspettare il momento in cui… Ma compresi che sul tempo non si poteva contare.”

[…]

“Dovevo andare via da questa bella, triste, intelligente e colorita città, Budapest, perché se fossi rimasto mi sarei rattrappito nella stupidità aggressiva che mi circondava. E dovevo portare via qualcosa che probabilmente era solo un’idea fissa: l’io, la personalità di cui esiste un unico esemplare.”

Ci spiega dettagliatamente ciò che prova, quello che lo spinge a prendere questa sofferta, ma necessaria decisione, che è soprattutto il desiderio di poter essere sé stessi, di essere liberi, quello che lui chiama la nostalgia della “Terra”:

“Vedere quello che dalla coffa dell’albero maestro della caravella di Colombo aveva visto il mozzo quando all’alba, con la voce rotta dall’emozione, aveva gridato: <<Terra, terra!…>>. (Forse quel mozzo urlante è sempre vivo dentro di noi, in tutti gli uomini: solo che qualche volta si addormenta al posto di vedetta. Colombo e i suoi compagni dormivano ancora quando la Terra già si intravedeva nella Luce).”

 

Ancora una volta un romanzo toccante, pregno di elaborati concetti filosofici, con un linguaggio forbito e accattivante ed una prosa elegante e esperta, costellata di frasi lasciate in sospeso che, solitamente disturbano la mia lettura, mentre in questo caso dietro quei puntini di sospensione (che l’autore utilizza già nel titolo del romanzo) sono riuscita ad intuire i tanti “non detto” che l’autore ha voluto lasciarci; una narrazione che spesso si dilata in intense digressioni autobiografiche e letterarie. Molti, infatti sono gli spunti per approfondire letture di autori che, personalmente conosco poco o affatto. Decisamente un romanzo da leggere e da rileggere, uno di quelli che lascia il segno …

“Perché un’opera rimanga viva lo scrittore deve sapere che da qualche parte esiste, nel presente o nel futuro, quell’essere particolare, quel fenomeno dialettico che è il lettore, alleato e insieme nemico. Che chiama e contemporaneamente respinge. C’è qualcosa di sensuale in questo fenomeno, qualcosa di allettante e minaccioso. Il lettore è il compagno, come in amore la donna.”

Citazioni tratte dal romanzo, pubblicate sui miei profili Facebook e Instagram 

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